“ Io sono nato nella Darsena vecchia in Viareggio…”, scrive Lorenzo Viani ne “Il figlio del pastore”.
“ Viareggio è una striscia di terra fra il Tirreno e le Apuane dove capita di vedere, solo girando lo sguardo, la neve sui monti e le scaglie di sole sul mare; la Darsena allora era una striscia di terra fra un canale e una pineta, tre strade e una lunga spiaggia che spariva lontano fino alle foci del Serchio, un deserto odoroso di camucioli. Vista dal mare appariva avvolta fra i pini e le vele.
La particolare conformazione fisica di Viareggio può apparire per certi aspetti soffocante, costretta fra due immensità: il mare che tende all’orizzonte infinito e le montagne che si ergono verso il cielo infinito. Forse è proprio per forzarne i limiti che i viareggini sono divenuti navigatori e produttori di bastimenti che hanno fatto storia, pensati e costruiti nei piazzali lungo il Burlamacca nella Darsena vecchia.
La Darsena era un quartiere povero di capitani di lungo corso, cucitori di vele, costruttori di navi, maestri d’ascia, calafati, pescatori, gente che aveva nelle proprie mani l’unica ricchezza e nel mare la fonte quotidiana della vita e della morte. Era il luogo dove anonimi fabbri fondevano nel ferro ‘grottesche’ per gli ormeggi, emblema di un atteggiamento che nel dare valore e bellezza anche alle cose più umili e quotidiane, attribuiva dignità e valore al lavoro e agli uomini che le avrebbero usate.(…)
In Darsena c’erano le bettole, luoghi dove ad un certo punto della notte le coscienze e la vista cominciavano ad ondeggiare; un bicchiere dopo l’altro si andava al di là del limite che ognuno degli esseri umani seduti a quei tavoli aveva posto alla propria esistenza, se era un marinaio la linea di confine dell’orizzonte oppure quella della propria fame, se era uno sbandato la linea di confine delle proprie visioni, se era un artista quella oltre la quale sarebbe salito un gradino più in alto nella ricerca della vera natura delle cose.
In Darsena si poteva incontrare un campionario di esperienze umane che rendeva impossibile costruire dei dogmi, delle convenzioni, non a caso Viani dipinse e scrisse di ubriachi, di vageri e di gente di mare, uomini impossibilitati a configurare la propria esistenza dentro categorie precise. La Darsena era un microcosmo che permetteva di arrivare a comprendere l’essenza della vita: attraverso quei personaggi che pescavano e navigavano, che costruivano le proprie barche e cucivano le proprie vele, che aspettavano, Viani maturò una concezione dell’esistenza che portò sempre con sé, quale termine di paragone, nei suoi soggiorni a Parigi come nelle letture filosofiche, scientifiche, letterarie. Viani viaggiò e lesse cercando conferme di quello che con i suoi stessi occhi aveva visto, sentito e compassionato.
La Darsena è il luogo dei suoi quadri, spazio fisico e mentale. Le grandi vele colorate oppure il beige della spiaggia solcato appena da una striscina celeste di mare sono la quinta costante, il fondale dove Viani colloca la gran parte dei suoi modelli ritratti.(…)
Oggi la Darsena è un luogo di terra e di acqua dove le architetture del lavoro convivono con quelle delle abitazioni e il Libeccio non è più il rumore della sciagura. Allora tutto era completamente diverso; le donne erano educate al coraggio e la pezzuola che imparavano a portare in testa era il simbolo della loro tragica condizione, alle donne il destino riservava la condanna dell’attesa, agli uomini quella della paura. Gli uomini e le donne rischiavano tutti e due la propria vita e ambedue la perdevano solo che il dramma delle donne era più atroce perché esser continuavano a camminare e a respirare mentre i loro uomini in fondo al mare avevano comunque sia concluso la battaglia. Viani non poté ignorare quello che i suoi occhi vedevano, non poté far finta di non sapere che i ragazzini con i quali giocava in mezzo alla strada erano orfani probabili e che le loro madri rischiavano da un giorno all’altro di chiudersi in un dolore al quale nulla avrebbe potuto porre rimedio. Questa consapevolezza truce, drammatica e insistente divenne l’assillo della sua arte: dare forma, espressione, narrazione al dolore senza rimedio, ad una miseria senza riscatto, a vite vissute all’ombra di un destino segnato e inesorabile”. (Serafini)